
Uno dei principi basilari delle certificazioni è il miglioramento continuo, ma questo può avvenire solo valorizzando il personale.
Lo aveva capito Adriano Olivetti. Lo hanno chiaro anche Toyota, Brunello Cucinelli e Ferrero. Insomma, lo hanno chiaro tutte le aziende che crescono e innovano. Per crescere non bisogna sprecare risorse, soprattutto la risorsa del tempo. E per non sprecarle bisogna investire sul personale.
Non è filantropia e nemmeno una missione francescana. Sto parlando di sviluppo, di progresso, di fatturato e soprattutto di certificazioni aziendali. Perché a cosa servono le certificazioni se non ad aiutare le aziende a migliorare di continuo?
Ogni azienda ha il suo sistema nervoso autonomo
Funziona così. «Ogni azienda ha un suo sistema nervoso autonomo», così lo chiama Yoshihito Wakamatsu, per lungo tempo nello staff dirigenziale di Toyota. Di cosa si tratta? È quell’insieme di legami e dinamiche che, oltre a rendere performante un’azienda, la rendono unica.
Non si tratta quindi di sistemi informatici per l’elaborazione di dati, ma di come le persone pensano, lavorano e vivono all’interno di un’azienda. È questa fitta rete di legami a rendere un’azienda competitiva.
Vediamo perché. Il mercato cambia di continuo, così come cambiano le tecnologie, il contesto e i bisogni delle persone. Spesso non è possibile stare al passo coi tempi dal punto di vista degli investimenti. Non tutti se lo possono permettere e chi può è comunque costretto a spendere cifre ingenti.
Come investire nel modo giusto
Attenzione: non dico che non bisogna investire, ci mancherebbe. Dico però che spesso si investe nel modo sbagliato trascurando le risorse interne. Pensiamo a Toyota, non produce certo auto di legno, eppure alla base della sua filosofia c’è il continuo recarsi all’interno del genba, cioè i luoghi dove si svolge il lavoro; quindi all’interno delle catene di montaggio o nei magazzini. Ma anche negli uffici se parliamo di processi organizzativi.
«È sempre nel genba – spiega Fabio Cappellozza nella sua introduzione al libro Toyota way – che, dopo aver ideato, implementato rapidamente i cambiamenti desiderati e verificato l’impatto, si può scoprire immediatamente che è ancora possibile fare qualcosa di più; solo così si può sperare di raggiungere l’attivazione di un kaizen efficace per l’intera azienda».
«Uno degli esercizi che Wakamatsu suggerisce continuamente di fare è provare a essere meno critici, meno scettici rispetto alle diverse idee che ci arrivano dai nostri collaboratori, preferendo alle lunghe valutazioni e congetture, i suggerimenti subito applicabili. Infatti è solo provando ad applicare un miglioramento e valutando gli effetti che si riesce a migliorare, facendo tesoro anche degli errori che naturalmente si possono commettere».
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Il forte legame che unisce Olivetti a Toyota
C’è un altro elemento che mi colpisce del metodo Toyota: è l’attenzione per le persone. È qualcosa di simile all’attenzione che aveva Olivetti per i suoi operai. Per la Toyota la gentilezza verso le persone ha lo scopo di creare un luogo di lavoro che dia importanza all’uomo.
Leggiamo: «In Toyota si realizzano continuamente kaizen che permettono la sicurezza in ogni processo. Per le persone in età avanzata, che hanno problemi di udito piuttosto che di vista, è preferibile un ambiente operativo luminoso e silenzioso. L’obiettivo è tendere a un luogo di lavoro in cui chiunque possa operare, e per questo ci si domanda continuamente cosa fare per utilizzare il 100% delle capacità delle persone». Lo ripeto perché voglio che sia chiaro: «Ci si domanda continuamente cosa fare per utilizzare il 100% delle capacità delle persone».
Dello stesso avviso era Adriano Olivetti: «Ed ecco che in questa fabbrica meridionale rispettando, nei limiti delle nostre forze, la natura e la bellezza, abbiamo voluto rispettare l’uomo che doveva trovare, entrando qui (…), qualcosa che avrebbe pesato nel suo animo. Perché lavorando ogni giorno tra le pareti della fabbrica (…) per produrre qualcosa che vediamo correre nelle vie del mondo e ritornare a noi in salari che sono poi pane, vino e casa, partecipiamo della vita pulsante della fabbrica, alle sue cose più piccole e più grandi, finiamo poi per amarla, per affezionarci e allora essa diventa veramente nostra».
Lo so, qualcuno di voi starà pensando che la vita reale è un’altra cosa (anche se finora ho fatto tutti esempi di casi reali). Sono d’accordo sul fatto che fare impresa è davvero dura, ma penso anche che un certo modo di pensare, lontano dal Kaizen, lontano dalle certificazioni, ha portato il Sud Italia, in 25 anni, a perdere 1,6 milioni di giovani. Chi restituirà il tempo perso all’economia del nostro Paese?
Ottimi spunti di riflessione, su cui basarsi per ripartire nel migliore dei modi possibili.
Grazie
Antonio, ciao. Scrivo molto, lo faccio perché ho un desiderio: migliorare la vita di ognuno, in modo particolare di chi fa impresa. Il tuo è un commento prezioso perché mi è utile a «ripartire nel migliore dei modi possibili». Grazie a te.